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lunedì 16 gennaio 2017

IN TRENO COI BOSCIARQI

                                                                      di Lorenzo Bosi

Erano da poco terminate le festività natalizie e a casa Bosciarqi – così come in quasi tutte le case del mondo – era sceso un leggero velo di tristezza.  Un malessere trascurabile ma non per Abien che decise di eliminarlo definitivamente. Perciò, quel sabato mattina, suggerì alla famiglia di passare un paio di giorni nella loro caverna di montagna preferita. E, manco a dirlo, la proposta venne approvata da un giubilo corale. Davvero entusiasmante, non trovate? Chi di noi non scalpiterebbe all'idea di passare due giorni al freddo e al gelo e, perché no, alla mercé degli animali selvatici? Beh, per i Bosciarqi non c’era proprio niente di meglio. Infatti, in men che non si dica, Malassa la giraffa era già in strada, diretta alla piccola stazione ferroviaria di Freudaccio. Padre e figli in groppa e Amaranda seduta o meglio, letteralmente sepolta tra le cianfrusaglie sul piccolo carretto a due ruote, trainato dall’animale. A chi non li conoscesse bene come noi, la mastodontica quantità di pacchi, valigie, sacchi e borse varie che si erano portati dietro avrebbe fatto pensare ad un trasloco vero e proprio e non ad una semplice scampagnata di due giorni. Ma noi lo sappiamo: ciò che per i Bosciarqi è naturale, spesso e volentieri, non corrisponde a quello che la gente comune ritiene far parte della normalità.


Ovviamente, trovare posto sul treno con quella montagna di bagagli procurò qualche problemino.
“Siete pregati di sbrigarvi!”, li apostrofò il capotreno in gonnella – si fa per dire, visto che anche le divise femminili prevedevano i pantaloni-.
“Signora, mi scusi, potrei chiederle un’informazione?”, la interpellò Amaranda.
La donna alzò gli occhi al cielo ma si avvicinò.
“Anche Liptolo deve pagare il biglietto?”.
La signora Bosciarqi le mostrò la piantina di eucalipto che teneva tra le mani.
“Mi vuole prendere in giro?” si spazientì il controllore. “Affrettatevi a salire piuttosto o vi multo per il ritardo che state causando al treno!”
Fu la pianta a risponderle, facendo vibrare vorticosamente le foglie fino a produrre un lungo sibilo.
“Liptolo la ringrazia”, tradusse Amaranda.
Il capotreno guardò inorridita il piccolo arbusto poi se ne andò a passo deciso lungo il corridoio, senza dire nient’altro.
Annunciato da un fischio prolungato, il piccolo convoglio lasciò la stazione di Freudaccio alla volta della montagna.
“Piccole care, ora potete riposare qui al calduccio”, considerò la signora Bosciarqi mentre il marito sistemava i quattro alveari, dall’innocente aspetto di casette colorate, sui vani portaoggetti.
Nessun altro si era seduto nello scompartimento quindi i posti lato corridoio erano rimasti liberi ma, sotto ad uno dei due, Frulla si era appisolata, vicino a Liptolo. Eh già, a Freudaccio conoscevano tutti le bizzarrie dei Bosciarqi. Meglio starsene alla larga! Tutt’al più, alcuni ragazzini facevano rapide incursioni a sbirciare la famiglia più stramba della città.
“Posso giocare un po’ con Sdenti e Sdentina? Mi sto annoiando”, si lagnò Arame, dopo una mezz’oretta di silenzio.
“Ma certo caro, anche loro avranno voglia di svagarsi un po'”.
Abien si alzò e prese il grosso involucro riposto sul portapacchi superiore e lo adagiò a terra. Quando tolse la coperta termica, scoprì un acquario in piena regola che occupava l’intero pavimento libero tra i seggiolini.
Alla vista della luce, i due ‘pesciolini’ iniziarono a saltellare allegramente nell’acqua.
“Penso che vogliano mangiare qualcosa”.
“Basta Arame! Non sopporto di vederli ingozzare di carne”, protestò Alaja. “Sono disgustosi”.
La bimba di dieci anni era la più estremista della famiglia e mal sopportava il sacrificio di qualsiasi essere vivente, piante comprese. Ecco perché si nutriva di pietre!
“Sei solo una sciocca”, le rispose il fratellino. “I miei piranha seguono solo la loro natura”.
“Sono degli assassini e basta! E tu sei loro complice”.
Con queste parole, Alaja uscì dallo scompartimento e andò al finestrino ad osservare il panorama che scorreva veloce sotto ai suoi occhi.
Poco dopo, il treno arrivò alla stazione successiva.
Nuovi passeggeri salirono a bordo.
“Guarda mamma, qui c’è un bimbo che gioca coi pesciolini”, gioì una bambina coi capelli legati da una dozzina di fiocchetti rossi, “Voglio sedermi qui”.
La donna osservò dall’esterno l’insolito quadretto famigliare: uno spilungone che arrivava con la testa al ripiano portaoggetti. Una donna che sembrava la versione femminile dell’omino di una famosa ditta di pneumatici e un giovanissimo individuo coi capelli rosso alga e dalla pelle talmente bianca da far pensare che fosse ad un passo dalla morte.
“Sei sicura?”, le domandò la signora dopo aver deglutito.
“Dovrei entrare”.
Madre e figlia si girarono verso la voce monotono che aveva parlato.
“Ma cos’è?”, sussurrò la donna, inorridita, alla vista del viso e dei capelli di Alaja, grigi come un sasso.
“Cara, forse è meglio cercare un altro scompartimento”.
Troppo tardi. Sua figlia aveva seguito la piccola Bosciarqi ed era già dentro.
"Possiamo sederci qui?”, domandò alla madre.
“Entrate pure, ci sono proprio due posti liberi”, rispose Abien col sorriso sulle labbra.
I denti dell’uomo erano coperti dai frammenti di acacia che stava masticando.
La donna si portò la mano alla bocca per nascondere un'espressione di disgusto.
“Dai mamma, siediti”.
Ormai era fatta e, suo malgrado, la distinta signora coi boccoli biondi ben curati, si sedette sul bordo della poltroncina, voltando immediatamente lo sguardo verso il corridoio. Poco dopo si accorse del via vai di giovani curiosi che si affacciavano fugacemente dal finestrino per poi fuggire, ridendo a crepapelle.
“Che pesciolini sono? Anche noi a casa abbiamo un acquario, vero mamma?”, chiese la bimba.
La donna fece un rapido cenno con la testa, senza distogliere però lo sguardo dall’esterno. Avrebbe desiderato trovarsi mille miglia da quel posto.
“Sono piranha e, se non stai attenta, ti mangeranno le tue belle manine”, rispose Alaja, secca. Evidentemente era ancora arrabbiata col fratello.
Gli occhi terrorizzati della signora osservarono l’acquario.
“Allontanati di lì!”, ordinò alla figlia.
“Non date retta a mia sorella”, intervenne Arame. “Hanno appena mangiato”. E mostrò i frammenti di carne che teneva ancora nella mano…palmata.
“Che guanti orrendi”.
“Signora, non sono guanti!”, rispose il bimbo un po’ infastidito dall’ennesimo commento sulle sue dita.
“Mamma, io vorrei giocare con i pesci…”
“…a tuo rischio e pericolo”, concluse Alaja.
“Nemmeno per sogno”. Poi la madre abbassò il tono di voce e tornò a guardare il corridoio “Per fortuna tra poco scendiamo. Questo incubo finirà presto”.
Alla fermata successiva, l’acquario venne riposto sul bagagliaio per far riposare i due piranha e, proprio sotto alla poltroncina della signora, Frulla si acciambellò più comodamente attorno a Liptolo.
“Mamma, ho fame”, disse Alaja quando il treno lasciò la stazione.
Amaranda aprì la sacca che teneva a fianco e ne estrasse alcuni pacchetti avvolti con la pellicola di alluminio.
“Tieni piccola mia, qui c’è il pezzo di pietra che non hai finito ieri sera”, annunciò la donna, allungando il fagotto alla figlia: “Voi volete nulla? Arame, sarebbe meglio che tu mangiassi le alghe di palude prima che si asciughino”.
La signora ebbe un conato di vomito ma cercò di non farlo vedere.
“Ma è una pietra vera?”, chiese invece la bambina che sedeva a fianco di Alaja.
“Certo, io mangio solo pietre. Sono buonissime”.
La giovane Bosciarqi aprì il pacchetto e addentò il sasso, frantumandolo rumorosamente.
“Tutte idiozie!”, bofonchiò la passeggera, continuando imperterrita a guardare all’esterno.
“Non sono idiozie”, si spazientì Alaja.
La donna fece spallucce.
“Vuoi assaggiare?”
Alaja allungò il sasso alla bimba.
“Mi raccomando, un morso deciso”
La madre si voltò di scatto ma non ebbe il tempo di reagire. Ormai le fauci della figliola avevano azzannato la pietra…e, naturalmente, avevano perso la sfida.
La poveretta gridò di dolore.
Sputò e, dalla bocca, alcuni frammenti di dente caddero a terra.
Istintivamente la donna si alzò per gettarsi sulla figlia sofferente. Era fuori di sé e, nella foga, calpestò la coda di Frulla.
La puzzola le saltò addosso.
Ci fu poi lo scossone del treno e la passeggera perse l’equilibrio.
Tentò disperatamente di aggrapparsi al vano portaoggetti…ma al posto di afferrare le mensole, trascinò con se una delle ‘innocenti’ casette, appoggiate su di esse.
Nell’impatto a terra, il tetto si staccò.
SILENZIO.
“Noooo, le mie adorate!”
Il grido della signora Bosciarqi anticipò di qualche secondo il cupo ronzio delle api.
All’interno dello scompartimento tutto divenne nero, anzi, giallo e nero. Migliaia di pungiglioni, arrabbiati dal brusco risveglio e rinvigoriti dal tepore del treno, sfrecciavano come proiettili impazziti.
La bimba, già dolorante dal morso alla pietra, non avrebbe sopportato anche la puntura degli insetti. Decise quindi di aprire la porta e scappare lungo il corridoio, con tutti gli effetti collaterali di quell’azione. Nel breve tempo di un istante infatti, lo sciame conquistò l’intero vagone.
Qualcuno tirò il treno di emergenza.
Il convoglio si fermò in mezzo alla campagna e iniziò il fuggi fuggi generale. Non solo dalle porte, il panico, spinse molti dei viaggiatori a scavalcare i finestrini e a darsela a gambe levate sui prati coperti dalla neve.
Il gracchiare sofferente di una cornacchia echeggiò tra le montagne…Ah no, era il grido disperato di Amaranda.
“Poverine, le mie dolcissime apette. Non posso sopportare un dolore simile. Muorirò!!!”.
La signora Bosciarqi era inconsolabile.
Quando i finestrini e le porte del treno si erano aperte, molte delle api non avevano retto al freddo pungente ed erano morte.
“No, no… è arrivata anche la mia ora. Non posso sopportare un dolore simile”.
Amaranda era distesa a terra, all’interno della grotta delle vacanze.
“Dai mamma, abbiamo salvato la regina. Presto l’alveare sarà di nuovo pieno di…”
“NOOOOO, non mi consolare! Non merito niente, non merito di vivere! Ho uccise le mie amate piccoline”.
La donna interruppe Alaja che cercava di darle conforto.
Il suo pianto era ininterrotto.
I figli la presero per le mani.
“Lasciatemi, non merito il vostro affetto. Sono un mostro! Cattiva. Cattiva. Cattiva. Cattiva. Cattiva. Cattiva. Cattiva. Cattiva e nient’altro che cattiva!”
Abien ebbe un’idea.
Mise a fianco della moglie un grosso contenitore di miele. Forse era più appropriato dire, un capiente catino traboccante di miele…
Amaranda si zittì. Osservò il gustoso nettare con occhi avidi.
Poi dilatò le narici del naso suino.
Con lo slancio di un pachiderma si sollevò e rimase ferma davanti alla bacinella.
Sul viso della donna apparve tenue sorriso che però scomparve subito dopo.
Guardò il marito e i figli.
Scattò. Uno slancio improvviso. Inaspettato.
Poco prima era lì, in piedi, affranta dal dolore e, un secondo più tardi, l’intera testa di Amaranda era completamente sommersa dal miele.
Quando risollevò il capo, non era più la stessa.
Per la serie ‘con la dolcezza si ottiene tutto’ e se uno è goloso è ancora più facile, la signora Bosciarqi si leccò il miele che le colava ovunque.
“Adesso si ragiona!”, commentò.
L’inconsolabile amarezza di poc’anzi era, improvvisamente, divenuta più sopportabile.


FINE SETTIMO

EPISODIO

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