Di
Lorenzo
Bosi
La
nuova maestra di Alaja, stava raggiungendo casa Bosciarqi.
“Forza!
Non avrete mica paura della vostra compagna di classe?”, domandò secca ai due
bimbi che stava trascinando con sé.
La
donna, coi capelli corvini raccolti sulla nuca e con un paio di occhiali dalla montatura rettangolare, appoggiati sulla punta del naso,
era stata appena assegnata alla scuola di Freudaccio.
Amedea
non tollerava i soprusi e i due grossi lividi che l’alunna aveva lasciato sui
visi di Marco e Stefano erano un motivo più che sufficiente per richiedere
provvedimenti ai genitori della bimba.
“Voglio
fare chiarezza su questa situazione. Non sopporto che ci si picchi nella mia
classe”, continuò a sbraitare la maestra. “Quella bambina deve cambiare.
Chiederò ai signori Bosciarqi di darle una bella lezione. Picchiare due
compagni di classe è una cosa inaudita!”
Il
terzetto uscì dalla cittadina, svoltò a destra e proseguì per il sentiero che
serpeggiava sulla collinetta.
“Qua
non vedo nessuna casa. Dove vive Ajala?”, domandò Amedea, stizzita.
Marco
allungò un braccio ed indicò un punto poco più avanti.
“Abita
lì”.
Gli
occhi della donna, stretti come fessure, incontrarono un semplice, grosso ammasso
di sterpaglie.
“Che
scherzi sono questi? Vuoi prendermi in giro?”
I
due bimbi negarono col capo, poi le indicarono la cancellata, anch’essa avvolta
da folte piante rampicanti.
La
maestra rallentò l’andatura.
Inorridita,
proseguì comunque fino al cancello aperto. Le mani della donna si strinsero
ancora di più a quelle dei bimbi.
“Ahia”,
si lamentarono.
Lei
non rispose.
“Le
abbiamo detto che è una famiglia strana”, precisò Stefano.
Amedea
deglutì rumorosamente. Era esterrefatta, tuttavia cercò di mantenere un
atteggiamento risoluto.
“Avrei fatto meglio ad ascoltare i bambini
e il preside”, riproverò mentalmente a sé stessa. “Dovevo convocare i genitori a scuola”.
Ma
non voleva cedere.
Avanzarono
oltre la cancellata. Ad ogni passo, tutti e tre avevano l’impressione che i fili d'erba si muovessero come tanti serpentelli…un momento!
Qualcosa
si stava davvero attorcigliando alla caviglia di Amedea.
“AHHHH”,
gridò. Istintivamente anche i bimbi fecero lo stesso.
Una
biscia!!
“Cosa
sta succedendo?”
I
tre sollevarono lo sguardo.
L’urlo
aumentò d’intensità.
Un
bimbo, completamente bagnato, con la pelle bianca come il latte e gli occhi
color ghiaccio, era apparso dal nulla.
“Ci…ciao…A…Arame”,
balbettò Marco.
“Cosa
ci fate qui?”, rispose il bambino di otto anni, squadrando i nuovi arrivati con
sguardo severo. “Stavo giocando nella palude col mio piranha e ho sentito degli
urli. Mi avete spaventato”.
“Ti
sei spaventato, tu?”, sbottò la donna. “Toglimi questa bestia di dosso!”
Amedea
sollevò la gamba imprigionata dalla biscia e la scosse ripetutamente.
Arame
sbuffò. Poi però si avvicinò e allungò la mano verso l’animaletto.
“Che
roba è? Cosa sei?”, sbraitò la maestra. Aveva notato le dita palmate e dovette
tenersi stretta alle spalle di Stefano per non svenire.
“Non
capisco cosa ci sia da gridare tanto”.
Il
bimbo liberò la piccola biscia tra l’erba poi tornò a rivolgersi agli ospiti.
“Se dovete parlare coi miei genitori, seguitemi”, tirò ad indovinare.
Il
gruppetto giunse ad una porta sgangherata. Arame la aprì ed uno sciame di
mosche e moscerini sbatté contro gli ospiti.
Sputacchiarono.
“Volete
entrare o no?”, domandò il giovane Bosciarqi, vedendo i tre nuovi arrivati
ancora fermi al di là della soglia. Poi si voltò, senza attendere risposta e
proseguì.
Lo
seguirono all’interno di quella che sembrava una grotta. Erba dappertutto e, dal soffitto, scendevano numerose liane.
L’antro, piuttosto stretto, sbucò in un ambiente molto più ampio.
“Arame,
hai portato ospiti?”
Maestra
e alunni rimasero a bocca aperta, ancora una volta. Un uomo, alto e secco come
un attaccapanni era aggrappato al collo di una giraffa.
“Scusatemi,
stavo facendo uno spuntino di foglie d’acacia”, annunciò l’uomo, scivolando giù
e saltando agilmente sullo strato d’erba che ricopriva il pavimento.
L’animale
invece proseguì a mangiare dai sacchi appesi al lampadario, infischiandosene
totalmente dei nuovi arrivati.
Lo
strano individuo strinse la mano ad Amedea. Lei lo osservò in silenzio,
incapace di parlare. “Sono il signor Bosciarchi, Abien Bosciarqi. Con chi ho il
piacere di parlare?”
In poco tempo, la
donna riconquistò l’abituale contegno.
“Sono
la nuova maestra di Alaja. Mi chiamo Amedea e dovrei assolutamente parlare con
voi. Voglio dire, ho bisogno di incontrare ai genitori dell’alunna. La madre è
in casa?”
“Io
me ne vado”, intervenne Arame.
Il bambino fece
alcuni passi prima di scomparire in un rumoroso sciabordio.
Amedea
scattò.
“Dov’è
andato? E’ caduto?”
“Non
si preoccupi, signora Amedea…”
“Signorina”,
lo corresse lei.
“Signorina
Amedea…si è immerso nel suo laghetto domestico”, spiegò il padrone di casa.
“Sedetevi pure, vado a chiamare mia moglie e Alaja”.
Quando
l’uomo uscì dalla stanza, gli ospiti si guardarono intorno. Ovunque c’erano
erbacce, frasche e rovi. Sulle liane che penzolavano per tutta la sala, svolazzavano numerosi volatili che defecavano liberamente a terra. Schifati,
preferirono rimanere in piedi.
Poco
dopo, Abien rientrò, accompagnato dalla giovane Ajala e da una donna che
assomigliava più ad fagotto colorato che ad un essere umano.
“Piacere
signorina Amedea, sono Amaranda Bosciarqi. Sono molto felice che sia venuta a
fare la nostra conoscenza. Saluta la maestra, cara”, concluse, rivolgendosi
alla figlia.
“Buonasera
signorina”, ubbidì Alaja.
“Sediamoci”,
li invitò la donna.
La
maestra si aggiustò gli occhiali per vedere meglio il vestito di Amaranda. Ebbe
comunque difficoltà a credere ai suoi occhi. Sulla stoffa gialla vi erano
applicati dei vasetti rossi con dei fiori veri all’interno ma, soprattutto,
vide numerose api ronzare su di essi per nutrirsi.
“Caro,
porta fuori Malassa. Credo che abbia mangiato abbastanza per oggi”.
“Hai
ragione, batuffolino”, concordò il marito che, come fosse una scimmia
scheletrica, si arrampicò sul dorso della giraffa e la condusse fuori,
cavalcandola.
“Bene,
sediamoci qui”.
Mamma
e figlia spostarono la vegetazione che ricopriva alcune pietre disposte in
cerchio. Poi, con un gesto del braccio, Amaranda invitò gli ospiti a sedersi.
“Volete
qualcosa da bere?”, chiese Alaja, con voce monotono.
“No,
no grazie”, Amedea declinò l’offerta. “Piuttosto hai parlato a tua madre di quello
che è successo stamattina a scuola?” Poi, senza attendere risposta, si rivolse
alla donna. “Sono venuta qui per raccontarle di un fatto increscioso”. E indicò
le ammaccature sul volto dei bambini. “Questi ematomi sono opera di sua figlia
perché li ha visti uccidere due lombrichi”.
“Sì,
nostra figlia ci ha raccontato tutto, poveri! Sono inorridita!”, commentò
Amaranda, portandosi una mano alla bocca. “Bisogna prendere subito dei
provvedimenti!”
“E’
proprio per questa ragione che sono venuta qui”.
“Ha
fatto benissimo. Bisogna essere incisivi senza tuttavia essere troppo severi.
Certi atteggiamenti non si devono mantenere”.
“Vedo
che la pensiamo allo stesso modo”, concordò la maestra.
“Sono
sicura che siate due bambini dolcissimi, tutti i bambini lo sono. Venite con me,
state tranquilli, piccoli cari”.
Gli
alunni si guardarono con occhi interrogativi. Poi rivolsero lo stesso sguardo
alla maestra.
La
donna non capì la ragione di quell’invito ma, allo stesso tempo, non ci vide
nulla di male.
“Andate
pure. Ora abbiamo chiarito tutto e certe cose non succederanno più”, sorrise
Amedea.
Marco
e Stefano si alzarono titubanti e seguirono la signora Bosciarqi, cercando di
evitare le api che ronzavano sui fiori.
“Ora
mi sento più sollevata”, commentò la maestra, rimasta sola con Ajala.
La
bambina non rispose.
Poi
un fruscio attirò l’attenzione di entrambe. Le frasche che ricoprivano il
pavimento iniziarono a muoversi visibilmente.
Amedea
scattò.
“Cosa
sta succedendo?”, domandò allarmata.
“Niente”, rispose la bambina. “E’ solo Frulla, la mia puzzola, che sta
arrivando”.
“La
tua cosa???”, si scandalizzò, la donna.
A
risponderle fu il musetto della bestiola che fece capolino dallo strato erboso.
La
maestra gridò e saltò in piedi sulla roccia.
“Tieni
quel mostro lontano da me!”
La
bambina prese la bestiola tra le braccia e sorrise, senza considerare gli
starnazzi della maestra.
“Ecco
qua i nostri bimbi! Dopo un paio di ore in questa posizione non uccideranno più
nessun animaletto indifeso”.
Amedea
spostò gli occhi terrorizzati dalla puzzola alla voce che aveva parlato.
Un
nuovo grido della donna echeggiò nell’aria.
Marco
e Stefano erano appesi a testa in giù. Amaranda trascinava, sulle quattro
ruote, una struttura in legno dalla
quale penzolavano i due bimbi che sbrativano come ossessi.
“No,
no, no”, strillò la maestra, in preda ad una crisi di nervi. “Non dovevate! Non
dovevate!”
“Signorina
Amedea, non sia troppo severa con loro. Questa piccola punizione sarà più che
sufficiente per farli smettere”, spiegò la signora Bosciarqi con la massima
tranquillità.
“Ma
cosa dice? Lei è matta! Voi siete tutti matti”.
La
maestra iniziò a saltellare sulla pietra come una palla matta.
La
puzzola si spaventò e, dapprima, mostrò i denti affilati alla donna poi però si
girò su sé stessa e sparò la sua secrezione maleodorante contro l’ospite esagitata.
Amedea
cadde a terra per il puzzo.
Il
fetore disorientò pure le api che si allontanarono dai fiori e presero a
ronzare per tutta la stanza come proiettili vaganti.
La
maestra si sollevò a fatica ma, una volta in piedi, scapicollò fuori di casa ad
una velocità tale da umiliare le prestazioni di un atleta olimpionico.
“Com’è
andata a scuola?”, domandò Amaranda alla figlia, appena rientrata da scuola.
“Bene
mamma ma la signorina Amedea non c’è più. E’ stata trasferita”.
La
donna smise di annaffiare l’erba del pavimento e guardò il marito che stava
brucando sulla giraffa.
“Che
strano, mia cara”, disse lui, “mi sembrava una brava insegnante, vicina alla
natura, proprio come noi”.
“E’
vero. Forse era un po’ troppo nervosa”, concluse la donna e riprese il lavoro
che aveva momentaneamente interrotto.
FINE
SECONDO EPISODIO
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